Il prezzo della tecnologia
Quali possono essere i rischi di una sovraesposizione all’uso dei tablet e di un’eccessiva digitalizzazione? Inutile negare ciò che numerosi studi scientifici continuano a evidenziare: l’uso della tecnologia sta cambiando il nostro modo di essere, di pensare, di affrontare le questioni quotidiane, di rapportarci con chi ci vive accanto. E tutto questo sta avvenendo da diversi punti di vista: cognitivo, comportamentale, emotivo, fisiologico. Insomma, umano.
Con la tecnologia i bambini imparano fin da piccolissimi a “planare” su realtà virtuali di cui non hanno ancora fatto esperienza: imparano velocemente i versi degli animali senza averli sentiti dal vivo o memorizzano i nomi di alcuni oggetti senza averli mai toccati e conosciuti. Oppure ascoltano per la prima volta Bach o Mozart da un’app musicale, che non può ovviamente restituire la ricchezza sonora di un concerto dal vivo. Imparano a scattare foto, o più probabilmente selfie, senza avere gli strumenti e la pazienza di studiare al meglio l’inquadratura, la luce, la messa a fuoco: tanto impareranno presto ad utilizzare anche i filtri per le immagini, trovando quindi sempre una rapida soluzione prêt-à-porter…
Wikipedia, Google o un qualunque altro motore di ricerca rappresentano la panecea per qualsiasi vuoto conoscitivo: non siamo più abituati a usare un dizionario (e men che meno un dizionario dei sinonimi e contrari), un’enciclopedia o a cercare un libro tra gli scaffali di una biblioteca. Tutto è facilmente scaricabile o condivisibile on line, gli e-book sono a portata di mano, Amazon in poche ore esaudisce ogni nostro desiderio senza fare un passo. E, perdendo il contatto fisico con la materia e la reale percezione delle cose e dello spazio, perdiamo contestualmente la capacità di studio, approfondimento, analisi, ricerca. I navigatori ci conducono inconsapevolmente nei luoghi che vogliamo raggiungere, senza permetterci di memorizzare strade e percorsi, ma seguendo sentieri già decisi e analizzati da altri. E le frasi d’amore, le parole per un biglietto di auguri o di ringraziamento? Non le cerchiamo più tra le pieghe del nostro cuore, ma tra i pin di Pinterest.
La scienza non può che confermare ciò che riusciamo facilmente a intuire: meno abituiamo il nostro cervello a compiere determinati passaggi logici, maggiore sarà la probabilità di atrofizzare quella determinata capacità intellettiva.
“Se ad esempio con Dragon, il celebre software di riconoscimento vocale ultra perfezionato, fosse possibile parlare velocemente e scrivere così un testo accurato su un foglio digitale, ci sarà ancora bisogno di scrivere usando le mani? Se posso imparare tutto rimanendo a casa, da dove posso ricevere ed emettere informazioni, sarà ancora necessario andare a scuola?” si chiede Roberto Gris, docente di Didattica dell’Immagine all’Università degli Studi di Verona, indagando il rapporto tra tecnologia e cultura, apprendimento individuale e relazioni educative.
Diventiamo davvero sempre più passivi rispetto alle scelte e alle possibilità della vita? L’idea di fondo che accompagna l’uso dei device è la velocità: dobbiamo fare tutto, ottenere risposte, trovare risultati a ritmi serrati. L’otium latino, inteso come tempo dedicato allo studio o alla conoscenza di se stessi, non sembra essere una scelta percorribile. E più attività riusciamo a fare (male) insieme, più crediamo di essere dei supereroi. Uomini e donne invincibili che però sembrano aver paura di fare una telefonata o di parlarsi dal vivo, preferendo un messaggio in chat o una mail: non tanto forse per pragmatismo, quanto per evitare un contatto umano, un’azione o reazione emotiva o un dialogo che a voce potrebbe risultare troppo vero o empatico.
Mandiamo, a tutte le età, valanghe di cuori e baci tramite le chat e poi abbiamo difficoltà a fare una carezza, ad abbracciare un amico o a dire un “ti voglio bene”. I cellulari sono sempre tra le nostre dita, sotto il nostro cuscino, di fianco al nostro piatto, sulla nostra scrivania. Ormai non ce ne accorgiamo quasi più, ma i device si insinuano tra le nostre relazioni, fanno da filtro ai nostri rapporti sociali, imbrigliano la nostra reale capacità affettiva.
E non solo. In America, dal 2007 (data di uscita dell’iPhone) e dal 2010 (anno del lancio dell’iPad), i ragazzi fanno anche meno sesso e si sentono più fragili: basta leggere Gianni Riotta che, l’8 agosto 2017 su “La Stampa”, parla di “iGen: why today’s super connected kids are growing up less rebellious, more tolerant, less happy and completely unprepared for adulthood”, il saggio della psicologa Jean Twenge pubblicato in Usa. Twenge ha analizzato i dati degli ultimi quattro decenni per tratteggiare il quadro degli adolescenti tra i 13 e i 19 anni. Il risultato? Teenagers più depressi e soli, meno inseriti nella società rispetto ai loro genitori o nonni, che trascurano amici e amori, e che preferiscono stare tutto il giorno tra cellulari e tablet piuttosto che uscire, fare sport, divertirsi, studiare o fare volontariato.
Insomma, la tecnologia cattura e strega grandi e piccini. Come in un girone dantesco siamo costretti a guardare in modo ossessivo quello schermo, a controllare l’ultimo aggiornamento della nostra pagina social, a fare refresh continui e spasmodici delle nostre web mail. E come noi anche i bambini rimangono incantati davanti ai nostri smartphone: vogliono tenerli con forza tra le loro mani, possederli, toccarne i tasti, indovinarne password di accesso. Proprio come se non desiderassero null’altro. Assuefatti.
Già, ma a quale prezzo?
Annalisa D’Errico
Giornalista e comunicatrice
Estratto da “Figli Virtuali” di Annalisa D’Errico e Michele Zizza (Erickson, 2018)
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