Per un pugno di empatia
Quanta empatia mettiamo nel nostro modo di comunicare? Qual è il nostro grado di comprensione delle emozioni e degli stati d’animo che vivono gli altri? Riusciamo a “entrare” un po’ nella testa e nel cuore dei nostri amici o conoscenti, anche senza parlare? Ovvero guardandoli solo negli occhi, intuendo i loro pensieri, mettendoci nei loro panni?
I nostri dialoghi, on line e off line, nascono di solito da una necessità di informazione: abbiamo bisogno di chiedere, capire, condividere, spiegare, raccontarci. Spesso siamo spinti dalla curiosità, dal desiderio di allargare il nostro mondo conosciuto o di entrare in contatto con gli altri, diversi da noi per esperienze e percorsi.
La comunicazione, però, non è un percorso lineare, ma è fatto di tante piccole insidie che possono trasformare e deformare il nostro messaggio, renderlo incomprensibile o comunque difforme dalla sua forma originaria. Questo accade a maggior ragione quando la comunicazione non è verbale, ma è affidata solo a parole scritte che, per loro natura, non possono essere accompagnate da gesti, espressioni o micro espressioni.
E spesso neppure le emoticon ci possono aiutare: il fraintendimento è sempre dietro l’angolo, pronto a saltare fuori e a sorprenderci. Già, sorprenderci: perché in fondo crediamo che il nostro punto di vista sia inconfutabile, cristallino, evidente, lampante, chiaro a tal punto da essere condivisibile a prescindere. Perché i nostri percorsi mentali, istintivamente, non sembrano prevedere le zone grigie dell’incomprensione e della mancata sintonia.
Il nostro pensiero vuole insomma governare sovrano, non avere rivali nel regno della comunicazione. Purtroppo a scapito della comunicazione stessa.
Freud, nell’”Inizio del trattamento” (1913), evoca proprio l’empatia come condizione imprescindibile per l’analisi, qui interpretata come il dialogo tra analista e paziente: “il successo della terapia si può mettere a rischio se si adotta un punto di vista che non sia quello dell’immedesimazione e per esempio un punto di vista moraleggiante”.
Per far nascere una vera comunicazione dobbiamo quindi spogliarci di ogni forma mentis e creare un rapporto con l’altro che ci permetta una più realistica interpretazione delle sue parole. E poi dobbiamo vestirci di dubbi. E darci tempo. Per capire l’altro e forse anche un po’ noi stessi.
Annalisa D’Errico
Giornalista e autrice di “Figli Virtuali. Percorso educativo alla tutela e alla complicità nella famiglia digitale
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